Il Cuciniere. La cultura gronda d’intingoli

mangia_libri_okIl cibo come la letteratura declina l’essere umano. Avendo sempre apprezzato chi nella cucina porta la cultura che gronda di intingoli, profuma di sughi e friccica d’arrosti, ho di quella italiana l’idea che sia affamata perché racconta di un popolo affamato sempre pronto all’ingozzo di pranzi e cene pantagrueliche in cui rimpinzarsi nella preoccupazione del giorno che verrà. E’ così l’arlecchino di Goldoni ha la fame perenne del popolino sottomesso che quando incontra la locandiera s’abboffa di pollastri e piccioni da cusinar, con le donne de casa acquista sardelle in saor ai mercati e nelle ultime sere di carnevale, tra le battute, i galli d’India corrono in palcoscenico tra attori e polpette che approdano sulle rive del lago di Como a tavola del Renzo, del Tonio e di Gervaso prima del tentativo di matrimonio con Lucia. Manzoni proletario, amante di Maupassant, cita il cibo come un sonetto, come un punto messo d’arte, come un inno, quello al risotto di Gadda “risotto patrio che non deve essere scotto, ohibò no! Solo un po’ più che al dente sul piatto: il chicco intriso ed enfiato de suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma” con il suo odore carico di zafferano che invade le stanza da Milano alla Sicilia. Lì Montalbano divora teglie di patate al forno, “un piatto che poteva essere nenti e poteva essere tutto” a seconda della mano che mescolava cipolla, capperi, olive, aceto e zucchero. E la cultura diventa con la cucina l’equilibrio, fondamento delle cose da cucinare che attraversa i salotti dannunziani di Andrea Sperelli dove, ne Il piacere, “la Silvia aveva acceso la sigaretta e inghiottiva le ostriche e la Clara chiuse il sospiro nel cerchio di un bicchiere di sciampagna”.
L’Italia cambia, cresce, declina, insorge, ma sul cibo cede e con lei gli intellettuali, i parolai, gli idioti. Noi nelle cucine disponiamo le parole e la materia in un capriccio della storia.